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![]() "LA CASA DELLA MIA PRIMA INFANZIA" |
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Casa della nonna Maria. Gerani rossi ai lati della porta d’ingresso in legno scuro. Dentro, odore di pulito. Mattonelle in cotto formano il pavimento. Una credenza, un mobiletto, un camino, una stufa, un tavolo con le sedie impagliate. Soprammobili essenziali: i due grandi boccali per la birra, in ceramica dipinta a mano, li ha portati il nonno dalla Svizzera. Sopra ci sono le camere. I copriletti in cotone ricamato profumano di sole. La casa è a tre piani, costruita agli inizi del ‘900 coi soldi guadagnati da un prozio che aveva lavorato in Argentina. A volte salgo nella stanza in cima, c’è ancora il letto alto, dove è nata mia mamma.E un porta catino, con la brocca per l’acqua. La usavano tempo addietro. Mi siedo sul baule a fantasticare. Guardo la polvere dell’aria muoversi nei raggi di luce. Giro per la casa. Salgo fino al mezzanino, scendo giù, nella cantina umida. Tutto è semplice, in ordine. Ogni cosa è al suo posto. Anch’io. Se ho voglia di stare all’aperto, gioco sulla “rizzada” con le biglie colorate. Le campane della chiesa suonano le ore. D’estate mi siedo con le bambole sulla panchina di granito, le foglie della vite sono larghe, di un verde luminoso. Apro il rubinetto della fontana, l’acqua batte sulla pietra. Mi piace esplorare i campi intorno. C’è l’orto che la zia Rita cura ogni giorno. Lì sperimento il contatto con la terra. E’ friabile. Aiuto la zia. Formo piccole zolle intorno alle piante di pomodoro. Tolgo le patate e le ripulisco con le mani. Sento la pelle, i muscoli del mio corpo da bambina tesi in quei minimi sforzi. Più in là c’è l’albero di amarene. In giugno la mamma mi tiene in braccio e io le colgo. Gusto il loro sapore acidulo. Tra le piante di granoturco ci entro da sola. Mi dicono di stare attenta perché le foglie sono taglienti. Ma io sono piccola e lo spazio tra una pianta e l’altra è sufficiente per passarci senza pericolo. Le pannocchie terminano con dei filamenti. Io li chiamo “le barbe”. Cerco di districarle. Al tatto sono morbide. In autunno passo meno tempo fuori. Sto nel cascinotto. Nell’angolo in fondo vedo gli utensili per l’orto. Mi avvicino ai sacchi con crusca e granoturco, da quello col frumento prendo dei chicchi, li mangio. Sanno di buono. Su un bancone c’è un po’ di tutto: un setaccio, secchi da riempire con l’acqua, catini d’alluminio, un cesto e lo “sgrana pannocchie”. Immagino vecchie storie che mi hanno raccontato. Apro a fatica una valigetta di legno, impolverata. I colori, ormai secchi, li usava il nonno per dipingere quadri. Il mandolino appeso al muro è dello zio Peppino. Le corde sono rotte. Magari si potrà aggiustare. D’inverno, nella casa della nonna, ci sono i ceppi che bruciano nel camino, il paiolo di rame con la polenta, le grosse verze per la “casoela”. Sopra i letti compaiono enormi piumoni quadrati di color oro antico, avvolti in federe bianche. Tra la neve si aprono delle stradine. Una porta al cancello, l’altra al pollaio, l’ultima arriva al pino. Con mio fratello raccolgo le pigne cadute per decorarle coi brillantini mentre aspettiamo il Natale. L’odore di resina mi entra a fondo. Da adulta riesco ancora a ritrovarlo. (racconto di Anna Maria Tettamanzi - 2010) |